TRILOGIA VERDE
Due elementi, più di altri, caratterizzano i film di Andrea Di Bari: la presenza di luoghi che diventano veri e propri protagonisti dell’azione e la vicenda di personaggi che, in quei luoghi e grazie a quei luoghi, vivono un’esperienza di conoscenza che li conduce a diventare diversi.
Si tratta di due motivi drammatici che si fondono assieme strettamente. Raccontare l’uno significa raccontare l’altro con un obiettivo chiaro e preciso: il cinema come luogo di riflessione e di conoscenza. Su di sé, anzitutto e difatti Andrea, in Riccio, al suo esordio, e poi con L’incontro ha cominciato parlando di sè. In una maniera, però, che si offriva già come traslata e metaforica, più che biografica. Vale a dire che il “sè” non intendeva essere una ostentazione di vissuto quanto il luogo di un primo esperimento di conoscenza. Prudentemente tale esperimento aveva luogo entro i confini che più e meglio il regista conosceva, ma già allora l’intenzione più profonda era quella di investigare l’umano attraverso di sé, con le sue problematiche, le sue dinamiche, i suoi orizzonti. Insomma si trattava di rivolgersi – anche magari attraverso il filtro della memoria personale – a qualcosa di più profondo, di più complesso, il racconto dandosi come occasione di una interrogazione attorno ai motivi più fondanti e primari del nostro essere.
Andrea, però, riesce in questo senza indulgere in cerebralismi ed in eccessi concettosi. Il viandante, in fondo, è la storia di un viaggiatore e di un incontro, La festa di Mario, esattamente quello che è, una festa. Ma la vicenda, chiamiamola così, immanente, diventa il luogo in cui si manifesta una vicenda altra, un’ombra sensibile, forte e chiara della precedente. In questa vicenda ciò che parla è il processo di trasformazione che ci attraversa di fronte all’interrogativo del nostro stesso esistere. Una trasformazione che ha un sapore iniziatico. Pur senza essere dichiarativi ed ideologici i film di Andrea presentano sempre l’approdo ad un nuovo livello di coscienza del personaggio, un livello che non è mai definitivo, né stabile, ma si affaccia esile di fronte ai suoi occhi incerti ma saldamente aperti. Trasmutandosi in paesaggio: la città che si schiude all’alba dall’alto di fronte a Gilli, il fiume che scorre impetuoso avvolgendo le gambe di Saro.
Il dato più forte e convincente di questi corti risiede proprio in questo, in una invenzione narrativa, non solo inconsueta ma anche ricca di intensi richiami emozionali e concettuali, e nella capacità che Andrea ha di rivestirla di un corpo filmico asciutto, essenziale, senza fronzoli ma chiaro e trasparente nella sua “classicità” di genere.
Lorenzo Mango
Docente di storia del teatro all’università di Napoli |
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